L’archeologo e archeogastronomo recupera ricette e piatti antichi dalla Mesopotamia al Medioevo.
Cosa mangiavano i Romani? Cosa si metteva in tavola nel Medioevo? Quali sono i piatti che hanno resistito al passare del tempo? Con il professor Paolo Braconi – archeologo, archeogastronomo ed ex docente (oggi in pensione) dell’Università di Perugia, dove insegnava Antichità Romane e Storia dell’Agricoltura e dell’Alimentazione – abbiamo cercato di rispondere a queste domande con una conversazione affascinante e ricca di spunti, dove non sono mancate curiosità e colpi di scena. Perché la storia e la cultura passano anche dalla tavola!

Il professore vanta più di 60 campagne di scavi, sia in Italia sia all’estero; ha diretto lo scavo della Villa di Plinio il Giovane a San Giustino, le ricerche archeologiche sui siti della Tadinum romana (Gualdo Tadino), al Monastero di San Secondo all’Isola Polvese e sul sito romano-sabino di Villa San Silvestro di Cascia. Con Marino Marini ha ideato ArcheoFood, un progetto gastronomico e storico per riscoprire piatti, ricette e sapori di migliaia di anni fa, ma adatti ai palati di oggi. «Importante è l’idea di certi piatti e di certi abbinamenti che va salvata. Non tanto il sapore, che non potrà mai essere come l’originale».
Facciamo subito chiarezza: cos’è un archeogastronomo? Da archeologo perché ha scelto di concentrarsi anche sulla cucina?
Sono un archeologo poi, insegnando Storia dell’Agricoltura e dell’Alimentazione all’Università di Perugia, mi sono specializzato in questi ambiti attraverso le fonti archeologiche. È stato il primo passo. Inoltre, ho iniziato a studiare la cucina antica: così è nata la curiosità di sperimentare e assaggiare cibi del passato, non solo studiarli e analizzarli dal punto di vista letterario o archeologico. In tutto questo ho coinvolto anche gli studenti.
Nasce da qui ArcheoFood?
Sì. Con il mio amico, allora cuoco e appassionato di cucina storica – ora vero esperto di storia della gastronomia – Marino Marini, e con la collaborazione dell’Università dei Sapori, è nata l’idea di realizzare ogni anno un laboratorio di cucina storica. Siamo andati indietro fino alla Mesopotamia, per passare poi ai periodi romano e medievale. Insomma, abbiamo cominciato a spaziare in diverse epoche. È nato così anche il marchio ArcheoFood, che però non ha avuto finora molta fortuna commerciale.
Quali sono i piatti che avete “riportato in vita”?
Ne sono stati recuperati un bel numero. Penso al progetto dedicato al mosto antico o mosto cotto, cioè la mostarda di senape (mosto cotto che è l’origine della parola mostarda). Abbiamo riportato in vita decine di prodotti gastronomici preparati con i mosti concentrati di Sagrantino e di Trebbiano Spoletino. Oppure la farsiccia: una salsiccia di farro, maiale e mandorle descritta nel celebre trattato di gastronomia romana De re coquinaria di Apicio (primo secolo d.C.). È stato un prodotto che ha avuto un gran successo durante gli assaggi. Ora sono in un’altra fase operativa e sto curando un libro di ricette romane antiche per musei e parchi archeologici: nella foto (qui sotto) un esempio in cui suggerisco una proposta di fave fresche cotte con lardo di maiale (fabae cum larido), tipica delle calende fabatae – una ricorrenza che legava il primo maggio alla dea Carna – che abbiniamo a farro risottato e pecorino.

A che periodo risalgono le ricette realizzate?
Provengono dal mondo romano e sono quasi tutte della prima età imperiale, sono ricette di Apicio sostanzialmente, qualcuna è di Columella: siamo nel primo secolo d.C. ma non solo. Seguendo le tavolette di Yale – le più antiche ricette del mondo, siamo nel II millennio a.C. – che provengono da Babilonia, abbiamo sperimentato lo stufato di rape rosse e montone e tutta una serie di piatti decisamente interessanti. Poi naturalmente c’è il Medioevo, lì ci si diverte di più perché ci sono molti ricettari, a partire dal Liber de coquina.
Ci sono dei piatti antichi che hanno lo stesso sapore di un tempo?
La risposta che le posso dare d’istinto è, no. Le spiego. Tutto è cambiato, perfino il pane. Naturalmente le pietanze di base come un pezzo di carne buttato sulla griglia o un uovo fritto, non sono cambiati, ma parliamo di alimentazione e non di cucina. Eppure, se uno volesse essere rigorosamente filologico ci sarebbe da dire che il cambiamento è avvenuto anche in quel caso: i polli di oggi mangiano il mais che nell’antichità non c’era e inoltre le razze animali sono modificate. Per non parlare delle modifiche genetiche apportate al mondo vegetale. Forse il sapore delle materie prime più simile al passato può essere quello degli animali e vegetali selvatici, sempre che non abbiano assunto nutrienti alterati dall’uomo.
Diceva che anche il pane è cambiato…
Sì, non solo il pane complesso, ma anche quello fatto con farina e acqua perché il grano di oggi ha una genetica totalmente stravolta rispetto ai grani antichi. Anche la stessa acqua è diversa se non si usa quella incontaminata (se mai esistesse davvero).
Quindi il recupero dei sapori non c’è, è solo il recupero del piatto?
La nostra filosofia non si basa sull’accanimento filologico, trovo che questo sarebbe ingiusto. Penso, invece, che la ricostruzione della cucina storica debba rispettare il passare del tempo. Mi spiego. Un piatto antico che è stato tramandato attraverso un libro di cucina, è passato alla storia perché evidentemente era buono, nessuno scrive ricette schifose. Partiamo quindi dal presupposto che ciò che è arrivato a noi è stato codificato perché considerato appetibile per l’epoca; se però oggi mi provoca disgusto, tradisco la sua natura. Un piatto deve poter essere adeguato al palato attuale così da restare buono e gradevole com’era un tempo. Quindi prendo l’idea dell’epoca e la trasformo, l’adatto e rinnovo in base al gusto contemporaneo. Ad esempio, la salsiccia di farro, maiale, mandorle, pinoli e salsa di pesce che abbiamo preparato, se avessimo mantenuto la quantità di salsa di pesce dell’epoca sarebbe diventato un piatto disgustoso. Ripeto, si salva l’idea, si salvano gli ingredienti e i procedimenti, ma si ricalibrano i sapori con il gusto di oggi. In fondo è come una tragedia di Euripide, non possiamo pensare di rappresentarla come 2.400 anni fa: abbiamo il testo antico, però la messa in scena oggi non sarà mai fedele a quella dell’epoca perché dovrebbe essere recita in greco, di giorno, senza luci, senza riscaldamento, senza amplificazione. Allora non la rappresentiamo perché non possiamo rifarla fedelmente? Va adattata all’oggi. Stesso discorso per la cucina: certi ingredienti non si trovano più quindi vanno sostituiti e non esistono le dosi. È l’idea di certi piatti e di certi abbinamenti che va salvata.

Per quanto riguarda l’Umbria: ci sono dei piatti che si mangiavano e si mangiano ancora?
Di cucina umbra non abbiamo nulla nella tradizione antica, però grazie a delle Tavole Eugubine sappiamo che gli Umbri (parliamo degli Umbri veri, non dell’Umbria moderna) avevano vari tipi di pane e sicuramente mangiavano il maiale, però non conosciamo le ricette. Conosciamo le materie prime ma, come condivano la porchetta o come impastavano il pane, è sconosciuto. C’è però una pietanza abbastanza immutata e antica: la torta al testo. Per la sua semplicità (acqua e farina, cotta su una pietra) ogni cultura ha realizzato questo tipo di pane: non richiede grandi apprestamenti e non richiede un forno. Ma per quanto semplice la ricetta, come ho spiegato, il sapore della materia prima (frumento o farro che sia) non potrà essere identico.
Si usava il testo?
Sì, ma il testo umbro, come lo conosciamo oggi, è una semplificazione del testo antico che originariamente aveva una forma più complessa: era un coperchio/campana di terracotta sotto il quale si poggiava il cibo da cuocere direttamente sul piano del focolare (come nel caso del pane) o all’interno di una teglia (carne e pietanze grasse). Sopra il testo si mettevano braci ardenti, era una sorta di forno. Questo tipo di cottura ad esempio in Abruzzo si usa ancora e si chiama cottura sotto il coppo. Il testo a disco piatto, che utilizziamo in Umbria, invece ha una forma semplice in cui la cottura avviene sopra e non sotto. Al massimo sopra la torta si rimette della cenere e sopra ancora qualche carbone ardente che non aderisca alla crosta, bruciandola.
C’è qualche curiosità legata al cibo umbro che proviene dal passato?
Mi viene in mente la storia del pane sciapo, che non ha niente a che fare con la Guerra del Sale del 1540 contro Papa Paolo III, nonostante quello che i perugini amano raccontare. Zachary Nowak, uno studioso americano docente dell’Umbria Institute, ha dimostrato che questo modo di preparare il pane non ha a che fare con la Guerra del Sale. Sostiene, dopo lunghe ricerche, che sia un’invenzione risorgimentale, una leggenda urbana dei perugini. Ci sono infatti documenti che provano che il pane veniva mangiato sciapo ben prima del ‘500. Ad esempio, nei registri degli ospedali e dei forni viene segnalo l’acquisto di farina ma non quello del sale, inoltre, fonti che raccontano la rivolta contro Paolo III non fanno mai riferimento al pane sciapo. Poi non va dimenticato che il pane è un alimento quotidiano, quasi sacro e che ha una tradizione talmente lunga che sembra ridicolo pensare che una tassa possa far cambiare la sua preparazione; anche se fosse, finita la guerra si sarebbe tornati a mangiarlo salato. Personalmente penso che sia uno status storico più profondo delle genti dell’Italia centrale e un fattore culturale. Il pane sciapo si mangia anche in Toscana, che non ha niente a che fare con il Papa e lo Stato della Chiesa, e nelle isole Baleari un luogo abbastanza insospettabile dove non manca certo il sale. Da perugino inviterei gli altri a dire perché mettono il sale, che è un’aggiunta alla base di acqua e farina. La presenza del sale modifica il sapore della farina e la camuffa se è andata a male o è inacidita; un pane sciapo pretende invece farine impeccabili e solo chi ha buone farine se lo può permettere.
Si conosce il periodo a cui risale il pane sciapo?
No, ma sicuramente è prima della Guerra del Sale.

Lei è in pensione, ma un archeologo va mai in pensione?
No. Dico a tutti che sono in pensione e come tutti i pensionati guardo i cantieri, però guardo quelli antichi (ride). In questo periodo ad esempio sto realizzando un lavoro sulle mura di Perugia nella transizione tra antichità e Medioevo. Per fare questo parlo con le pietre, in un progetto che chiamo archeologia dell’assenza.
Di cosa si tratta, ci spieghi.
Studio le cicatrici, ciò che manca nei monumenti – può trattarsi anche di strade. In questo periodo mi sto occupando dell’arco di Sant’Ercolano che non è una porta etrusca, ma è un buco fatto nel Medioevo: è stato realizzato talmente bene che tutti pensano sia una porta etrusca, invece è un buco medievale in un muro etrusco. Questa appunto è “un’assenza” di muro etrusco.

Agnese Priorelli
